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Franco Corradini, viaggio d’inverno
Chiara GattiPictures must be miraculous (Mark Rothko)
«Non sono un pittore astratto» dichiarò energicamente Mark Rothko nel corso del famoso dialogo col critico statunitense Selden Rodman, nel 1957. A quanti, per tutta la vita, etichettarono il grande artista russo (americano d’adozione) come un astratto, Rothko continuò a rispondere che rappresentare solo forme e colori non significava affatto astrarsi dal mondo, ma semplicemente descrivere qualche cosa di diverso e più profondo rispetto agli oggetti o alle figure: e cioè «le emozioni umane fondamentali: la tragedia, l’estasi, il destino».
Franco Corradini potrebbe dire lo stesso. Chi conosce il suo lavoro dalle origini sa quanta indagine sull’uomo, sul Cristo, sulla passione, sulle vittime, sulla morte, ci sia stata negli anni, lungo un processo inesausto di narrazione del corpo come luogo dei patimenti terreni, confortati da una prospettiva di trascendenza. Lo stesso Rothko, sulla metà degli anni Trenta, aveva dimostrato il proprio attaccamento alla figura umana in migliaia di disegni popolati di volti e gesti, ritratti taglienti di personaggi fortemente espressivi. Separarsi dalla figura anche per Corradini non è stato semplice. Separarsene in senso didascalico – intendo – non certo essenziale. Perché Corradini, nel ciclo più recente delle grandi tele dai toni liquidi, onde evanescenti mescolate a tracce di memorie, continua scientemente a parlare dell’uomo pur non affondando nei dettagli fisici della sua presenza, ma allargando lo sguardo all’invisibile, al pensiero, all’idea.
«In arte – si leggeva nello storico Manifesto del Realismo del 1946 – la realtà non è il reale, non è la visibilità, ma cosciente emozione del reale». Così l’emozione per Corradini guida la mano verso un grado superiore di comprensione della realtà. La sua gestazione avviene nel bulbo del quadro e, una volta germinata, manifesta sulla superficie tutti i poteri dell’anima, chiedendo al pubblico di partecipare al miracolo della creazione. La pittura come un’epifania. Se una vocazione per il sacro e la sua rappresentazione ha spesso legato Corradini a commissioni liturgiche, facendo di lui uno degli artisti più attivi nella ricerca sull’immagine sacra contemporanea, le opere su tela e su tavola legate ad alcune serie di dipinti come “Marginare il vento”, “Verso Santiago”, “… e da l’estiva arsura” (citazione di un verso dell’Ariosto…) o “Winterreise”, mostrano ora il passaggio dal racconto all’evocazione pura. «Il pittore – spiegava proprio Rothko – si evolve cercando una chiarezza sempre maggiore, ossia attraverso l’eliminazione di tutti gli ostacoli tra il pittore e l’idea, e tra l’idea e lo spettatore». Ostacoli che potrebbero essere ricondotti al classico senso di contingenza, che non di rado vincola la scena a un tempo definito proibendole di viaggiare verso i territori dell’assoluto. Basti pensare all’eccesso di documentarismo di molta speculazione estetica odierna, che confonde la militanza con la retorica.
Franco Corradini arriva invece a sacrificare la figura per giungere a collegare direttamente la potenza tragica del quadro con la percezione che se ne ricava osservandolo.
Questione di empatia, ovvero quella capacità dell’opera d’arte di comunicare il vertice estremo di tensioni vitali provocate dentro la composizione da un sistema di relazioni cromatiche e spaziali. Ecco perché, davanti a opere astratte (o meglio «non-figurative», avrebbe precisato Rothko…) come quelle degli americani della Scuola di New York, oppure di Arshile Gorky, Wols e Antoni Tàpies, scatta sempre un sentimento di partecipazione mosso da un’adesione intima. Non è l’oggetto riconoscibile a innescare la commozione, ma le tracce dell’ineffabile. E Corradini semina tracce che l’occhio insegue sulle mappe complesse di una geografia emozionale. Segni sottili, alternati a linee più muscolari incise nel legno di punta, conducono la mente lungo i sentieri delle ombre, nei labirinti del cuore. Ma, essendo Corradini un erede ideale dell’antica scuola italiana, di un naturalismo di longhiana memoria, pur sacrificando la figura, non sacrifica tuttavia l’immagine sublimata di un paesaggio idealizzato, traghettato oltre i confini del sogno.I suoi colori, per quanto stesi con intuito informale, alterando le forme in un ritmo dinamico di corse accelerate, scie e graffi lasciati sullo sfondo, tradiscono una riminiscenza selvatica. Suggeriscono tasselli di un creato che non ha cessato di palpitare. Per questo i titoli parlano di vento, querce, estate, arsura. Ancora una volta, non descrive ma evoca. E la materia giunge in supporto a questo articolato gioco di stratificazioni, erosioni, applicazioni e scavi. Inseguire il ritmo, tracciare il battito della terra, studiare l’equilibrio degli elementi, sono le priorità di una investigazione condotta sulle possibilità spaziali dell’immagine, intesa come territorio solcato da linee che disegnano una conformazione orografica di ambienti mentali; luci e ombre dell’inconscio sono proiettate sulla superficie da sferzate di colore acuto e luminoso, gialli elettrici, azzurri opalini, verdi sonori. Nella sua celebre sperimentazione tecnica, che arriva a sposare la pittura con innesti di tavole xilografiche (grande scuola di incisione di cui lui è maestro) o applicazioni di piccole vetrate piombate, Corradini sintetizza in composizioni polimateriche tutto il suo racconto, allegoria di episodi climatici, di mutazioni atmosferiche segnate dall’incedere incalzante dei venti, dalla siccità di deserti ambrati, dalla fertilità di boschi umidi.
Ma, attenzione, la natura per Corradini resta uno stato mentale: è commozione, passione, soprattutto sacro! Non certo impressione, cronaca, istante. Non c’è il “brivido” degli Ultimi naturalisti di Francesco Arcangeli e Giovanni Testori. C’è piuttosto (ed ecco il nesso evidente con Rothko) lo slancio mistico verso un mondo ultraterreno che vede nei prati e nei cieli solo la manifestazione del divino in terra. Prerogativa della pittura di icone – splendidamente raccontata nel celebre saggio Le porte regali di Pavel Florenskij – è l’apertura di un varco fra mondo visibile e mondo invisibile. La pittura di Corradini ha, non a caso, questo valore trascendente acuito dalla presenza di indizi iconici, come i vetri che rimandano al tema della luce nelle cattedrali o le stelle simbolo eterno del cosmo e dei misteri dell’universo. Non stupisce dunque che in un ciclo di lavori come “Le querce di Mamre”, il riferimento diretto corra a molte scene della Bibbia, fra cui l’apparizione di Dio ad Abramo. I brani delle scritture nutrono l’ispirazione di Corradini in opere in cui lo spunto narrativo diventa un alibi per tornare, ancora, all’emozione. Per il cammino di Santiago il discorso non cambia. L’esperienza mistica si traduce in scenari bagnati dalle sfumature del viaggio, da una natura spettinata, mediterranea, ma allo stesso tempo interiore. Tutta l’ampia serie di “Marginare il vento” si può leggere dunque come una gigantesca metafora dell’esistenza impressa nella forza degli elementi, nello sbattere delle porte, nei vortici nerissimi che avanzano dall’orizzonte macchiando il bianco di un’inquietudine tetra. Luci e ombre della vita. Qui, la sovrapposizione di livelli, il rilievo di una cornice che contiene, a sua volta, altre piccole tele impaginate come breviari, alludono ai confini del visibile, a finestre, passaggi verso una dimensione assoluta. Il carattere lirico emerge ancor più struggente nei dipinti del “Winterreise” (il Viaggio d’inverno) che ricorda, in sottotraccia, i 24 Lieder per voce e pianoforte di Franz Schubert, e concentra la tensione nell’accumulo di nembi spessi, feriti da bagliori di lampi, increspati da tagli ematici, come se la musica trovasse la sua corrispondenza figurale nei boati degli inchiostri, nelle gocciolature dei toni acidi, nelle scalfitture inferte con sgorbie affilate. Con l’incisione Corradini fa quello che Pollock faceva con la vernice industriale: getta – complice un movimento secco del polso – fregi dal sapore apotropaico. Gli amici intimi di Schubert, commentando proprio il suo “Winterreise”, dicevano che l’austerità dell’incontro fra poesia e musica «toccava l’ineffabile oltre il cuore». Torniamo all’empatia e torniamo alle “emozioni umane fondamentali”!
Lea Vergine, nella sua critica illuminante, ha sempre definito gli effetti della partecipazione al dramma dell’immagine come «maceranza dell’anima». «Poiché l’arte questo è: un’ombra o un’eco dell’amore, un tentativo di incarnarlo, un tentativo destinato a suscitare spesso solo maceranza dell’anima, trascinando la perdita dell’unica vera meta di noi tutti». Corradini trascina nel viluppo dei suoi colori, nelle matasse di segni affilati sul legno, nei morsetti che stringono e cuciono le superfici come nodi o sigilli, il cuore di chi comprende e condivide la faticosa marcia dell’artista verso la trascendenza. Non per nulla, il raffronto più verosimile fra la ricerca estetica di Corradini e quella dei maestri del passato – oltre a Rothko – si stende fino a Caspar David Friedrich e ai suoi viandanti sul mare di nebbia. È come se Corradini, in certe opere inzuppate di foschia, si fosse posto nel ruolo del viandante, ritto in piedi sul paesaggio, a picco sul vuoto. Fragilità umana e immensità celeste. Questa lunga letteratura del viaggio appartiene a Franco Corradini nel suo valore emblematico, ma anche nel dolore fisico che il pellegrino prova sulla propria pelle subendo gli stenti di un itinerario della fede. Questa fatica gliela si legge nelle mani, nell’energia inesausta delle sue dita che scavano, incidono, arrampicano su tele di dimensioni anche monumentali laddove la mappatura dello spazio, dei luoghi dello spirito si fa ampia e sfugge alle conoscenze del cartografo. «Il viaggio comincia laddove finiscono le nostre certezze» sosteneva l’antropologo Franck Michel. Non c’è misurazione che regga davanti agli enigmi dell’altrove. Il vento di Corradini indica allora nuove direttive, disegna correnti nel blu, segue le impronte nella neve fresca di un inverno bianco e miracoloso.
Febbraio 2019
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Assiepati e talora sovrapposti, oppure sedimentati attorno ad altri provvisori, o interrotti da materiali eterogenei e da tracce di elementi figurativi, i colori dei quadri recenti di Franco Corradini si dispongono in superfici che paiono ritagliate da luoghi, per il momento, inviolati. A due registri cromatici dominanti corrispondono altrettante titolature toponomastiche che sono, al contempo, misure di distanza interiore:} verdi, i blu e i turchesi, agglomerati in tonalità d’alga e di ninfea, rimandano infatti a una condizione che il pittore ha definito «Il luogo di Ofelia», mentre i rossi, bruni e i gialli luminescenti parlano di un «Forteto inattinto», un sito d’alberi, una boscaglia intricata, fitta di arbusti.
Sono dunque paesaggi di una materia densa e variegata, a cui l’artista si avvicina con un indugio che consente un’appropriazione graduale, non un dominio irruente ma una sapiente cautela. Sia l’elemento acquatico sia quello terrestre e boschivo appartengono qui a una dimensione coesiva, nella quale è possibile immergersi o addentrarsi solo attivando le facoltà metamorfiche della psiche e non gli antagonismi dell’intelletto.
1rrichiamo a Ofelia introduce l’icona di una metamorfosi dei tratti umani verso la loro base vegetale, in un dissolversi che non è angoscia, ma quasi rinascita più profonda e più avveduta. Non è il terrore repentino delle Metamorphoses di Ovidio ma un compiaciuto abbandono, che predispone l’anima, ancor prima del corpo, a una mimesi con l’intima essenza dell’acqua e delle piante. E’ il luogo concettuale del disfacimento delle forme – in realtà anche un affiorare dall’elemento nativo – dell’Ofelia shakespeariana – adorna di fantastic garlands… crowflowers, nettles, daisies, and long purples (capricciose ghirlande… ranuncoli, ortiche, margherite e orchidee> – le cui vesti s’imbevono lentamente per trascinarla nel fondo delle acque, alle quali essa si concede «Iike a creature native and indued unto that element (come una creatura che avesse avuto origine in quell’elemento e che quasi vi si sentisse disposta dalla natura»>. Come Ofelia non teme il trapasso della propria figura e si abbandona alle acque cantando(la materia dei dipinti di Corradini è impregnata di una continuità psicologica con gli elementi circostanti, che consente al pittore di cogliere l’energia insita nell’incertezza delle forme.
L’assenza di contorni definiti non è dunque, in Corradini, l’esito estremo di una decostruzione giunta alle soglie della rinuncia espressiva, non appartiene cioè a un lessico informale, determinato dall’impossibilità di accedere alle immagini, ma è piuttosto un progressivo emergere verso stadi di aggregazione sempre pii complessi, nei quali s’indovina un’incipiente nuova dicibilità. L, campiture cromatiche, gli inserti eterogenei, e la stessa scansione, spazi aie s’affermano allora come essenziali sintagmi retorici, qua_ prove di un discorso per il quale si è andata raccogliendo la necessaria tensione emotiva.
Sebbene non manchi una coscienza critica del passato, ess non si palesa come una dissacrazione e neppure con citazioni letterali: dall’Ofelia di Millais ai lineari disegni art nouveau, dalle dorature klimtiane agli inserti oggettuali dadaisti, dai materici impasti di Dubuffet e Fautrier alle stesure pittoriche dell’informale Corradini si avvale di un ricco apparato erudito che viene tuttavia scomposto in strutture elementari, in rapide frasi dalla sintassi originale, protesa verso l’esito di una trasformazione imminente.
Anziché rammaricarsi di ciò che è stato già detto e già fatto, l’artista ne trae così conforto formale, come se avesse consultati un prezioso repertorio di moduli espressivi, che possono ora liberamente rientrare nel discorso artistico.
La ricerca estetica approda per questa via a una dimensioni soggettiva, che prolunga nel quadro le emozioni del vissuto enunciate in primo luogo dagli accenni figurativi e dai reperti oggettuali. Quasi pegni della realtà in atto, questi frammenti sono come la traccia per un ritorno, a cui il pittore per ora non pensa ma che deve comunque restare praticabile, affinché
progredire verso l’inattinto non si configuri come una fuga irreversibile bensì come una serena empiria. I quadri di questi due cicli pittorici esprimono allora una successione cronologica interiore, in cui i singoli materiali e i diversi colori divengono indi2 per ritrovare un percorso ancora intentato. Il procedere c Corradini è pertanto una deduzione dell’ignoto dal noto, chi avanza per brevi tratti, intervallati da lunghe pause, intesi come le tappe di un viaggio, a dare riposo e a ricapitolare il tragitto compiuto.Giulio Busi Venezia, maggio 1998
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Oggi, mentre leggete queste righe, e tutti i giorni del mese e per ogni mese dell’anno, una fila di pellegrini camminanti, più rada o più fitta a seconda delle stagioni, copre gli ottocento chilometri di un antico itinerario che unisce il sud della Francia a Santiago de Compostela, nella Galizia spagnola che si affaccia sull’Atlantico. È un fenomeno che si ripete da più di mille anni, e porta pellegrini di tutta Europa e del mondo alla cattedrale che custodisce l’urna con le reliquie dell’apostolo Giacomo, uno dei Dodici di Gesù Cristo, detto “Figlio del tuono”, evangelizzatore della Spagna e martirizzato per decapitazione da Erode Agrippa. Due discepoli dell’Apostolo, Teodoro e Atanasio, ne sottrassero il corpo e lo riportarono sulle coste della Galizia, su una barca (di pietra, dice la leggenda) guidata dagli angeli. Giacomo venne sepolto e onorato con un’edicola marmorea. La tomba cadde nell’oblio, gli Arabi dominavano in Spagna, i regni cristiani erano deboli e rivali fra loro. La storia del Cammino cominciò nell’anno 814 con una misteriosa pioggia di stelle che per molte notti apparve sul monte Libradon (Liberum Donum) a un eremita, Pelagio, accompagnate da voci angeliche. Fu coinvolto il vescovo Teodomiro che si recò con una folla al luogo dell’apparizione, dopo tre giorni di digiuno. Qui fu trovata, sepolta dagli sterpi, un’edicola con tre sepolture, subito attribuite a San Giacomo e ai suoi discepoli . Il re Alfonso fece costruire una cappella sul luogo stesso e fondò un monastero : nasce Compostela, il Campus Stellae. È il tempo di Carlo Magno, di papa Leone III. Con il misterioso ritrovamento dell’urna del santo, inizia l’avventura dei pellegrinaggi “ad limina Sancti Jacobi” e per la Spagna l’epopea della “Reconquista”, di cui l’Apostolo è simbolo e patrono. La leggenda lo vuole apparso in battaglia su un cavallo bianco, come Matamoros, figura che ancora oggi troviamo sugli altari delle chiese. Il primo racconto, o guida, del pellegrinaggio risale al 1139, ad opera di un certo Aymeric Picaud , che compila il V° Libro del Codex Calixtinus (dal papa Callisto) o Liber Sancti Jacobi. Qui si parla delle vie che portano a Compostela, delle tappe in cui si suddivide il Cammino, delle città, degli hospitali, dei tracciatori di percorsi, delle acque buone e cattive, dei traghetti e paesaggi, delle reliquie dei santi da visitare, delle meraviglie della città santa, soprattutto della cattedrale. Il primo documento che certifica un pellegrinaggio risale al 950, quando il vescovo Gotescalco guida il suo popolo dalla sua sede di Le Puy a Santiago, percorrendo una delle principali vie da nord, insieme a quella che proveniva da Vezelay. I pellegrini di allora affrontavano distanze infinitamente più lunghe di oggi, partendo dalla loro casa, magari nel nord Europa, e facendovi ritorno, naturalmente sempre a piedi. Un commento del ‘500 tratteggia la figura del pellegrino: non porta il peso delle cose temporali ; sul petaso, cappello a larghe falde, tiene immagini o simboli di santi ; porta sulle spalle il sanrocchino o pellegrina, cioè una corta mantella; a tracolla tiene la bisaccia (escarcela, scarsella per gli italiani, sporta per i provenzali) dove custodisce denaro e credenziale ; impugna il bordone dalla punta ferrata, a cui sta appesa una zucca per l’acqua. Un viaggiatore del ‘700, Nicola Albani, nel suo “Viaggio da Napoli a San Giacomo in Galizia” spiega la cerimonia di vestizione e di iniziazione del pellegrino, a cui il postulante accede dopo la confessione, la richiesta di perdono, e talvolta il testamento. Sì, perché nel prolungato tempo del viaggio, molti pericoli erano in agguato: malattie, briganti, pestilenze, popolazioni ostili, animali selvatici, acque inquinate. Per il camminante non esisteva nessun appoggio, salvo i rari ospitali: non carte geografiche, negozi, informazioni; praticamente solo l’affidamento alla Provvidenza. Una mezza follia. La conchiglia ( o concha, vieira) era ed è tuttora il simbolo per eccellenza del pellegrino giacobeo ; è il pecten o capasanta, che veniva raccolta sulla sabbia di Finisterre, prospiciente l’Atlantico. Era un po’ tutto: scodella per le fonti, lasciapassare, simbolo. Insomma, il ritrovamento di quella tomba segnò la devozione, l’arte, la cultura, la civiltà stessa dell’Europa; nei secoli si mossero, alla volta dell’Apostolo, pellegrini da ogni contrada, re, regine e santi. Il Cammino di Santiago, proclamato Primo Itinerario Culturale Europeo, richiama oggi e affascina genti di tutto il mondo, soprattutto negli anni santi giacobei, quando cioè il 25 luglio, festa del Santo, cade di domenica : nel 2004 i pellegrini che ritirarono la compostela (di cui parleremo) furono 180.000 ; nel 1999 si contarono tremila pellegrini in dicembre, quando il clima, soprattutto in Galizia e sui Pirenei, è decisamente inclemente. Volente o nolente, non posso sfuggire alla domanda iniziale : perché intraprendere il Cammino “ad limina Sancti Jacobi” ? Bella domanda (ma non si potrebbe scegliere l’altra busta ?) . Chissà se riuscirò a rispondere durante il racconto, o almeno nell’ultima pagina. Quando si comincia a pensare al cammino, le emozioni, i dubbi, i desideri, gli interrogativi si intrecciano in modo inestricabile. Un tarlo che non demorde, non si assopisce neanche di notte. Si valuta tutto ciò che si sa dagli amici, dai libri; ma ciò che richiama irresistibilmente è ciò che non si sa, che non è stato detto, e che tu solo puoi scoprire. Qualcosa ti dice che la scommessa è forte, e che non saranno i piedi soltanto a sostenerla. Cercando, rischi davvero di trovare, rischi l’incontro con te stesso, con i tuoi limiti e il tuo profondo, e con il Mistero, con l’Altro. Capisci che non si tratta di raggiungere l’urna delle ceneri di un Apostolo, ma che qualcosa in te dovrà incenerirsi, e questo fa paura. Chiamiamola incoscienza, chiamiamolo desiderio bruciante di rivelazione, di bellezza, di conoscenza, di benedizione. Tutte queste motivazioni scompaiono di fronte a una parola: vado. Ed eccomi qui, infatti, su un trenino giocattolo a due carrozze che sferraglia da Bayonne a Saint Jean Pied-de Port, nei Pirenei francesi. Sono giunto qui dal mio paese, Borgonovo Val Tidone, in provincia di Piacenza, passando per Voghera e Nizza. Nei miei compagni di vagoncino vedo me stesso: zaino, scarponi da trekking, ma soprattutto una luce negli occhi che sa di sorriso e di entusiasmo. Puoi scommettere che anche loro portano nello zaino le mie stesse cose, da quelle normali (indumenti per tre giorni) ad altre all’inizio incomprensibili, lette sulle guide: due mollette da bucato, mezzo sapone di Marsiglia per i panni e la doccia, torcia elettrica minuscola, sacchetti di plastica non crepitanti, ago e filo (non per gli strappi nei panni, ma per le vesciche), spago, spille da balia. Scommetto che in quegli zaini ci sono i tappi di cera per le orecchie, che io non ho portato ma di cui capirò la funzione nelle camerate dei rifugi. Eccoci catapultati a Saint Jean ; troviamo l’albergue dei pellegrini e ritiriamo la Credencial, dove saranno apposti i pittoreschi timbri di tutti i luoghi dove sosteremo, per comprovare le tappe percorse e ritirare con diritto, a Santiago, la compostela attestante l’avvenuto cammino. Visitiamo il paese, ma come in trance : il pensiero e il corpo sono già alla partenza di domattina, all’alba. Notte, passa in fretta, per favore.
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L’ESPRESSIONE CONTEMPORANEA DEL SACRO
Mi limito ad appuntare alcune brevi osservazioni assolutamente sommarie – poco più che aforismi – in relazione al mondo artistico più vicino e noto, le arti coinvolte nelle dinamiche della liturgia nella Chiesa cattolica in Italia.
Prima osservazione: guardando alla realtà. Nel mondo delle arti nella e per la liturgia, con le specificazioni appena indicate, pare che, a partire dal e per impulso del Concilio Ecumenico Vaticano II, sia in atto una profonda trasformazione in cui risaltano almeno tre tratti caratteristici: a trentacinque anni dalla conclusione del Concilio Vaticano II non sono più tanto chiari né il punto di partenza nè gli obiettivi; sembrano cadute le barriere e i pregiudizi nei riguardi delle forme e dei linguaggi innovativi: su questa strada si è giunti, in alcuni casi, a praticare uno sperimentalismo senza freni di tipo simbolico e materico-tecnologico attualmente in via di attenuazione; sembrano essersi allentati i legami con quella realtà multiforme che chiamiamo tradizione: su questa strada si è giunti spesso a sfiorare una sorta di amnesia e di rigetto pratico, da cui negli ultimi anni ci si sta gradualmente ritraendo; è ormai praticata in modo diffuso una generica, ma non lucida, disponibilità a tutto quanto è contemporaneo o si presenta come tale. Siamo dunque in una situazione magmatica di ricerca per la quale sembra impossibile individuare un profilo unitario: l’unica espressione sintetica che sembra idonea a descriverla in modo non troppo approssimativo potrebbe essere il termine di “nuovo eclettismo” .
Seconda osservazione: guardando agli artisti. E’ difficile negare che il mondo della religione, inteso nel senso più esteso e vago del termine, oggi interessi molto gli artisti i quali, perciò si affacciano, chiedono, ascoltano, vorrebbero incontrare i temi della grande tradizione religiosa cristiano – cattolica, ma spesso, pur avendoli di fronte non sanno né riconoscerli né cercarli. Soprattutto vorrebbero nuovamente incontrare i committenti ecclesiastici ma, spesso, hanno l’impressione di averne perduto le tracce e di non possedere informazioni per ritrovarle.
Terza osservazione: guardando al committente. Il committente di opere d’arte per le chiese e gli altri edifici ecclesiali, secondo un costume consolidato nel secondo millennio, oggi è ancora in larga misura un ecclesiastico. Dalle decisioni del sacerdote – di regola il parroco -, in concreto, dipendono molto spesso la scelta dell’artista e per molti aspetti le opere d’arte stesse. A questo proposito occorre precisare che la situazione è destinata a durare ancora nel tempo anche se, considerata la grave crisi delle vocazioni, forse per non molti anni. Ma rimaniamo all’attualità.
Qual è oggi in Italia il profilo del committente ecclesiastico medio? Il committente ecclesiastico oggi in Italia è una persona dotata di buona formazione culturale di base, ben disposta nei riguardi degli artisti contemporanei per i quali non nutre particolari pregiudizi; inoltre il committente ecclesiastico si muove in modo assai “informale”: è notoriamente meno attento al sistema delle regole e del quadro istituzionale mentre è assai sensibile a coltivare le relazioni umane, in particolare verso chiunque svolga attività artistica.
La sua formazione specifica, invece, lascia piuttosto a desiderare, tanto che ci si domanda spesso se vi sia stata preparazione in materia di arte nel corso del suo itinerario formativo. In alcuni casi vi sono fondati motivi per dubitare che il seminario formi il clero italiano in materia di arte. La situazione, in realtà, da quanto risulta da indagini recenti, non è così drammaticamente negativa. La formazione del clero italiano, assai lunga e laboriosa, oltre che poco omogenea, per quanto l’arte è affidata a docenti di varie discipline (storia ecclesiastica, liturgia, teologia e altro) più appassionati che formati e non esclude in genere le materie artistiche. Essa potrebbe essere migliorata e certamente lo sarà nel corso del tempo quando, in un quadro meglio definito, vi saranno formatori specificamente preparati, proposte formative e quei sussidi che oggi mancano ancora quasi del tutto.
Ma anche nel caso in cui la formazione intellettuale del clero fosse di più pregevole livello sono convinto che essa non sarebbe in grado, attualmente, di fare del prete un committente responsabile: per essere committente, infatti, sono necessarie almeno due doti: da una parte una determinazione interiore che lo studio da solo non può dare e dall’altra una consistente capacità di valutazione professionale degli artisti e dell’arte: entrambe le doti non si possono presupporre ma sono frutto di un intenso lavoro ed educativo e formativo.
A parte alcuni casi fortuiti, tuttavia, sono dell’avviso che non sia in alcun modo realistico sperare che il clero possa essere dotato della competenza professionale di cui ho parlato. Di conseguenza non credo sia realistico attendersi che il clero italiano in futuro possa autonomamente svolgere il ruolo di committente artistico. La situazione che è sotto i nostri occhi conferma ampiamente questa valutazione: il clero è spesso volonteroso e ben disposto ma è professionalmente non preparato e quando si improvvisa committente provoca effetti indubitabilmente e generalmente negativi. Le sue notevoli qualità personali, inoltre, proprio in questo campo gli giocano brutti scherzi. Un esempio, peraltro assai frequente, può chiarire: se una persona in buona fede offre in dono a un sacerdote italiano un’“opera d’arte”, a dispetto di regole scritte e non scritte, si può essere praticamente certi che il sacerdote italiano accetterà di buon grado il dono e, senza procedere ad alcuna valutazione previa di tipo tecnico, appena possibile la collocherà nella sua chiesa ritenendo in buona fede che la relazione personale di cui quel dono è segno sia più importante di ogni altro valore, compreso il valore artistico dell’opera, e quindi vada premiata.
Due o tre parole di conclusione. Poiché la ricerca continua sembra opportuno mantenere saldi i punti di riferimento: sono convinto, cioè, che sia molto utile ribadire e rinfrescare periodicamente la fedeltà al Concilio. Mi sembra inoltre opportuno tenere conto seriamente della situazione di disorientamento nel quale si muovono sia gli artisti sia i committenti ecclesiastici. A questo riguardo i suggerimenti che si possono dare sono due: quanto agli artisti, aumentare l’offerta formativa e di contatto personale; accompagnare l’impegno dei committenti ecclesiastici con il sostegno di persone competenti come critici e storici.Mons. Giancarlo Santi
Direttore dell’Ufficio nazionale beni culturali ecclesiastici della Segreteria Generale della Conferenza Episcopale Italiana -
“Il Canto: una certezza nel bisogno, cantando”
(Novalis)Caro Corradini,
anche se oggi sono lontane ipotesi, vorrei ancora pensare che esistano artisti che, vivendo in campagna, tra verdi colline, mi suggeriscano immagini di sognatori solitari che, come scriveva Li-Po alcuni secoli fa (…”lontano da discorsi e discordie, hai la testa appoggiata a un guanciale di nuvole azzurre”…), si beano nella pace di un’arte senza tempo. Ma sono arrivate, dalla silenziosa Val Tidone, puntuali le tue immagini a smentirmi. Da pittore a pittore, più che a una disamina storico-critica, che poco mi compete, voglio dirti tout-court che mi tocca il tuo fare tutt’altro che beato, la tua voglia contrastata di non poter santificare una natura, nella tua pittura avviluppata di strati, assemblaggi, materie, come in una dolorosa ricerca di uscita da un tunnel. Il tunnel è quello della nostra condizione ormai malamente globalizzata: non esistono più campagna o città, nei tempi e luoghi certi; la nostra è epoca di dubbiose confusioni, per addomesticare le quali alcuni hanno fatto diventare perentorio il banale, ufficiale la cretineria. E i pochi che tentano ancora di opporre, su un terreno così friabile, una volontà di valori, devono scontrarsi con un mondo che non sa, non vuole sapere più, perché oramai costruito su altro. E così si urtano porte chiuse, si agisce in un ambito dove crisi, lotte, incertezze tengono campo. Il tuo fondo lirico, la tua voglia di raccontare un albero (un abete, vero ?) credo debba fare i conti con tutto questo. E così penso che il tuo voler fluire verso una natura luminosa sia alquanto ostacolato: sulle tue tele si alternano infatti, nella tua rabbia gioiosa, geroglifici e scansioni di griglie, tavole perforate, incise, divise a sconnettere la superficie, un dentro e fuori di materiali, cornici svuotate, spessori e evanescenze di colori, irruenze e pacatezze, irrequietezze, sospensioni…
“Non sono capace di finire un quadro con una tecnica sola”, mi scrivi, nella tua ricerca di conciliazione degli opposti.
Forse la soluzione che cerchiamo si trova proprio nell’irresolvibilità di certe situazioni. Il dubbio che si fa dramma, una problematica che diventa “forte” per la sua inconciliabilità, un cercare accanito perché non trova, potrebbero essere ingredienti atti a formare, nel crogiolo delle nostre pulsioni, il metallo di un risultato poetico.
Sono vie molto difficili; cercare una soluzione nel contrapposto può essere una contraddizione in termini. Elio Franzini, nel volume “Fenomenologia dell’Invisibile” distingue tra le forme dell’invisibile, che si ammanta nel simbolo, e dell’irrappresentabile, sulla soglia del solipsismo formale che, secondo Kant, confinerebbe col “disgusto”. Ma seguendo la logica, le soluzioni non vengono.Ofelia è morta tra i fiori, cantando. Dal bisogno a volte sgorga il canto. La tua natura di fondo è lirica, non disdegni rammentare gli echi del mondo “beato” di un’infanzia perduta. Nelle tue opere più recenti credo di individuare scansioni più dosate, trapelano più espansi messaggi di luce.
Voglio utopicamente augurarti, proseguendo lungo la tua strada, la certezza di un grande campo luminoso. In cima al colle, emblematicamente, verde, un albero.Mario Raciti
Milano, ottobre 2001 -
Ogni uomo è chiamato a essere l’artista della sua vita. Così c’insegnava un nostro professore di dogmatica. L’esistenza dell’uomo è fatta di materiali concreti, visibili: il corpo, le azioni, i rapporti sociali. Tocca all’uomo immettere in questa realtà materiale un’anima, un pensiero, un progetto: proprio quello che normalmente fa un artista. Lavora, l’artista, con materiali di terra: argilla, marmo, pietra, colori, tele, pennelli. Ma con questi materiali un artista vero sa esprimere e suscitare un’emozione, sa far riflettere e sa plasmare i desideri della persona. E’ un piccolo miracolo, questo; un miracolo che richiede non poca fatica perché “la materia è sorda all’intenzion dell’arte”; essa non si piega facilmente a esprimere un mondo ricchissimo come quello dello spirito. Anzi, bisogna riconoscere che la materia tende a conservare una sua opacità per cui ogni opera d’arte si slancia verso un obiettivo che è collocato al di là di essa stessa.
Per il cristiano, l’opera d’arte per eccellenza è Gesù Cristo. Uomo vero, fatto come noi di carne, di sentimenti, di emozioni. Eppure la carne, l’umanità di Gesù era capace di esprimere il mistero stesso di Dio. Scrive san Giovanni: “Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo visto la sua gloria, come di Unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità.” Il termine ‘carne’ indica la fragilità dell’umanità che Gesù ha assunto. Non è quindi un’umanità magica, che possieda qualità superiori; è un’umanità vera, del tutto come la nostra. Eppure questa umanità è stata plasmata dallo Spirito ed è diventata un’umanità rivelatrice di Dio.
A noi è chiesto di imitare Gesù. Questo non significa ‘copiare’ Gesù, riprodurre i suoi lineamenti esterni il più esattamente possibile, ma piuttosto ‘ricreare’ il mistero dell’incarnazione nella nostra vita, lasciare che lo ‘Spirito’ che ha plasmato l’uomo Gesù plasmi anche la nostra umanità e ci renda simili a lui. “Noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore.” (2Cor 3,18)
Per questo c’è una misteriosa ma reale affinità tra l’arte e la religione, tra l’opera faticosa dell’artista e l’ascesi faticosa del cristiano. Arte e religione cercano di immettere lo spirito nella materia: l’arte per rendere la materia ‘bella’, la religione per rendere l’uomo ‘buono’ o, forse meglio, ‘santo’. Grazie, dunque, agli artisti; non sono salvatori del mondo, ma testimoni veraci che il mondo può essere salvato. Non possono fare la strada verso il mistero in sostituzione degli altri; ma possono svegliarci, farci percepire che c’è un mistero nelle cose, anche nelle cose più semplici della vita. Quando un frammento di realtà è toccato da un artista vero, quel piccolo frammento appare trasfigurato, diventa un appello alla meraviglia e alla ricerca della verità. Umile fruitore dell’arte, metto allora il mio saluto con stima e riconoscenza grande; e anche con l’auspicio che la nostra sensibilità artistica possa crescere e cresca, nello stesso tempo, la sensibilità a quel mistero della realtà che si svela solo a uno sguardo stupito e attento. -
Franco Corradini. Le storie del Battista.
Dal terreno friabile del quotidiano alla sfera impalpabile del divino
Chiara Gatti
Parlando dei celebri affreschi realizzati alla fine del Quattrocento da Masolino a Castiglione Olona, in terra lombarda, Roberto Longhi sottolineò «il rapporto di convivenza pacifica tra azione e spettacolo». Il grande storico dell’arte italiano era rimasto abbagliato dal dialogo virtuoso fra le scenografie issate dal genio toscano e la presenza vitale dei personaggi sullo sfondo di un vero e proprio teatro, costruito articolando ogni evento nel tempo e nello spazio. Le vicende di San Giovanni Battista che si dipanano nel Battistero di Castiglione sono un capolavoro della storia dell’arte che, oltre ad aver rinnovato l’iconografia antica della vita del Battista aprendola a una serie di interpretazioni moderne, ha sdoganato l’idea stessa di racconto, mescolando gli episodi al fine di restituire una narrazione dinamica. La sequenza ritmica delle scene riassume i fatti salienti. Ma la contaminazione fra momenti diversi suggerisce passaggi rapidi, inquadrature libere, successioni di circostanze che tracimano le une nelle altre, complice l’andamento mosso delle superfici murarie, il passaggio fluido dalle volle alle colonne. Senza cesure. È impossibile, per un artista contemporaneo, chiamato a misurarsi con un’iconografia di tale valore e potenza, non fare i conti con questa lezione epocale.
Così Franco Corradini, maestro di una figurazione che unisce da sempre la vocazione al sacro con un sentimento umano di memoria esistenziale, rilegge oggi le storie di San Giovanni in cinque tele monumentali (alte 2 metri e larghe 190 cm) che, concepite per la chiesa di San Giovanni in Canale, a Piacenza, si innestano nello spazio liturgico come un vero ciclo di tradizione pre-rinascimentale. L’ampiezza stessa delle scene rappresentate plasma l’architettura con la funzione precisa di spalancarla verso una dimensione mistica, sublimando la materia dal terreno friabile della quotidianità alla sfera impalpabile del divino. Vengono in mente anche i primitivi del Trecento, Giotto ad Assisi o Giusto de’ Manabuoi che, non a caso, nel battistero di Padova, spalmò le storie del Battista su ogni centimetro quadrato di parete disponibile. Lo stratagemma di legare i blocchi narrativi con dettagli ricorrenti, speroni di roccia travasati da un’inquadratura a un’altra, personaggi moltiplicati, replicanti di se stessi, inserisce novità prospettiche, di spazialità e di anatomia delle scene mutevoli.
In questo gioco di concatenazioni, Corradini inserisce un ulteriore stratagemma narrativo. Mentre la lettura del ciclo scorre dalla Visitazione alla Predicazione, dal Battesimo di Gesù a Giovanni in carcere, fino all’apice esiziale della Morte del Battista, a margine di ogni episodio lampeggia una pellicola ideale di eventi collaterali ed evocativi. Essi hanno la funzione di dilatare il racconto, integrarlo e commentarlo. Nella scena della predica nel deserto, per esempio, compaiono un agnello, il popolo radunato, la locusta (di cui Giovanni si nutriva) e lo scorpione, simbolo di tradimento. Allegorie come queste punteggiano l’immagine principale di altri particolari che “si accendono” a lato, come slides.
Lo sguardo dell’osservatore passa dunque dal tema centrale alla panoramica filmica delle finestrelle – citazione sapiente di moduli tradizionali, predelle verticali o ante di polittico! – su cui Corradini costruisce il suo racconto parallelo, la sua dilatazione spaziale. Maria ed Elisabetta, velate da un diaframma di tarlatana, che ne cela le fisionomie per esaltare invece il frutto del loro grembo (Gesù e Giovanni), sono accostate all’apparizione di un fiore, a un ricamo materno e all’ombra del volto di Zaccaria, sposo di Elisabetta, sacerdote del tempio di Gerusalemme. Nel Battesimo di Gesù accade invece che parti della composizione stessa si distacchino dal nucleo per orbitare intorno. Come l’ala dell’angelo che regge un lenzuolo, profetica allusione alla sindone del sepolcro. Oppure, schegge di paesaggio smontate come tessere di un vasto mosaico, sembrano prelievi dai colori estratti come campioni in una sorta di sintesi concettuale dei motivi dominanti. Nella scena del carcere, la figura tragica e affranta di Giovanni dialoga strettamente con il viso scavato e sofferto di Cristo che affiora dall’oscurità. Il Battista instaura con lui una conversazione silenziosa, gravata di dubbi e ripensamenti. Ma, dal buio, Gesù emerge con forza e convincimento; è l’epifania della fede.
Anche la Danza di Salomè attorno al corpo offeso di Giovanni è coronata di occhi puntati ossessivamente sulla scena: Erode, il calpestato, l’esecutore e un astante pentito, chino su se stesso. Un coro potente e doloroso di personaggi è ritagliato nella geometria di una scacchiera che affaccia su un pezzo di teatro tradotto nella pittura febbrile di Corradini, nel suo gesto istintivo e pervicace.
In questo processo di analisi della scenografia, dove azione e spettacolo convivono pacificamente (per tornare a Longhi…), Corradini gioca infatti su un cortocircuito costante di elementi. Gli equilibri esatti delle parti si scontrano con l’imprevedibilità della traccia libera e il gesto selvatico del colore emotivo. L’iconografia classica piega verso una narrazione teatrale, quasi performativa. I contenuti di altissimo misticismo bilanciano le fragilità profondamente umane. E ancora, il confronto fra eterno e finitudine è pungente. La tensione divina consola la debolezza mortale. La luce spezza la notte.
Il risultato è un gigantesco affresco delle nostre paure e della nostra liberazione. Le storie del Battista diventano un alibi per affidare al sacro un messaggio pedagogico universale. Tutto sembra parlare di una morte avvenuta, di una tragedia consumata. Ma anche di un insopprimibile desiderio di riscatto, di una salvezza promessa, di una redenzione possibile. Come se il dolore terreno potesse, infine, trasformarsi in speranza.
Giugno 2018